Brief | Haiti: lo stato dimenticato
- Riccardo Andreotti

- Jun 24
- 8 min read

Panoramica:
Più di 11 milioni di abitanti concentrati sulla porzione di un'isoletta caraibica dove l'ordine, la democrazia e il senso stesso di civiltà sembrano ormai andati alla deriva. Tra spiagge bianche e alberghi di lusso la popolazione haitiana languisce nell'incuranza internazionale.
Dalla fine della dittatura nel 1986 al terribile terremoto del 2010, che costò la vita a più di 200.000 persone, l'isola non riuscì mai del tutto a raggiungere né la stabilità politica né il tanto agognato sogno democratico. Ma dall'assassinio del presidente Moise nel 2021, a più di 8 anni dalle ultime elezioni regolari, la situazione sembra essere precipitata in un baratro senza fondo. La quasi totalità dell'isola è in mano a bande criminali, lo Stato è ormai spogliato di ogni sua funzione, le istituzioni sono scatole vuote, mentre per le strade di Port-au-Prince si consuma feroce una guerra senza quartiere.
Stupri, saccheggi, rapimenti ed esecuzioni sommarie sono all'ordine del giorno. Mancano beni di prima necessità, compresi elettricità, cibo e acqua potabile. Quel paradiso terrestre, un tempo esibito sulle copertine patinate delle riviste di viaggi, si è oggi trasformato in un girone infernale di atroci violenze.

Il Lento Tsunami:
Così è stato definito dagli analisti il susseguirsi di eventi che ha portato alla catastrofica situazione odierna. Ma le responsabilità non si limitano ai confini nazionali, la prima ingerenza da parte di un governo estero risale all’amministrazione Clinton. Alla fine degli anni ‘90, la Casa Bianca costrinse la giovane Repubblica Haitiana a togliere i dazi sui beni agricoli USA, gravemente danneggiando il settore primario dell’isola.
Più recentemente, in seguito al tragico terremoto del 2010, sembrò che le Nazioni Unite, con il supporto del presidente Obama, potessero dare una svolta alla situazione politica del paese: venne istituito un programma di ricostruzione che avrebbe portato a risollevare l’economia puntando soprattutto sul settore turistico. I cospicui fondi stanziati, furono in parte investiti proprio nello sviluppo di strutture ricettive, ma non si fece abbastanza per garantire i servizi di base alla popolazione locale, lasciata sguarnita di un sistema fognario e con grossi problemi infrastrutturali.
La crisi politica in Venezuela ha poi esacerbato un contesto già di grande difficoltà, causando nel 2018 l’interruzione del programma PetroCaribe, vitale per i rifornimenti di petrolio. L’aumento del prezzo dell’energia ha comportato un’impennata dell’inflazione che tra il 2022- 2023 ha toccato quote del 40%.
Le elezioni presidenziali del 2017 hanno portato alla vittoria l'imprenditore locale Jiovenel Moise attivo nel mercato delle banane. Malgrado l’ampio consenso ottenuto alle urne con il 55,6% delle preferenze, si aprì da subito un duro scontro politico con le forze di opposizione. La tensione raggiunse il suo apice nel 2020 dopo che Moise annunciò di voler bypassare il parlamento, governando attraverso decreti presidenziali. Questa svolta autocratica fu accolta con un moto di proteste popolari, ulteriormente alimentate dalla mala gestione della crisi pandemica. Il 4 luglio 2021 un commando di 28 militari di nazionalità colombiana e haitiano-statunitense fece irruzione nel palazzo presidenziale crivellando di colpi il corpo del presidente. Da allora si sono susseguiti governi incapaci di ristabilire l’ordine e le bande criminali hanno preso il controllo del territorio.
Gli ultimi sviluppi:
Nel 2024, la politica interna ha attraversato significative turbolenze a partire dalle dimissioni rassegnate a marzo dal Primo Ministro Ariel Henry. In aprile è stato istituito il “Consiglio Presidenziale di Transizione” che nel mese successivo ha nominato Garry Conille, ex capo di gabinetto di Bill Clinton alle Nazioni Unite, come nuovo premier.
Il 25 giugno ha avuto inizio, tra ritardi e contestazioni, la missione militare guidata dal Kenya che, a fianco di altri stati africani, sotto mandato dell’ONU, avrebbe dovuto ristabilire l’ordine nel Paese. In pratica, degli oltre 1000 militari previsti, sono effettivamente giunti solo 400 uomini a rimpinguare le esigue forze di polizia locale, che contano circa 10.000 agenti, un numero 6 volte inferiore rispetto ai componenti delle milizie che controllano il territorio. Il totale fallimento dell’operazione kenyota ha portato persino ad un aumento delle violenze, con le bande armate che si sono unite per fare fronte al nemico comune.
In questo contesto è emersa con forza la figura di Jimmy Chérizier detto “Barbecue”, ex-poliziotto ora a capo della coalizione tra i gruppi armati locali. Imputato di svariati crimini contro l’umanità, questo leader carismatico si presenta ai media come un ribelle che combatte a fianco del suo popolo contro uno Stato corrotto.

A causa di accuse di corruzione, il 7 ottobre, Edgard Leblanc Fils viene estromesso dalla presidenza del CPT e gli subentra Leslie Voltaire; poco più di un mese dopo anche Conille viene destituito.
A novembre si contano circa 700.000 sfollati e la vicina Repubblica Dominicana non è disposta ad aprire i propri confini, persevera anzi in rigidissime politiche di rimpatrio nei confronti degli immigrati irregolari. È di inizio febbraio la notizia dello smantellamento dell’ente americano UsAid (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale) ad opera di DOGE, la commissione guidata da Elon Musk che punta a ridurre gli “sprechi” per la spesa pubblica americana. Di conseguenza, sono stati bloccati fondi per 13 milioni di dollari, destinati proprio a supporto dell’isola caraibica. La linea della neo-insediata amministrazione Trump pare essere chiara in tema di aiuti internazionali: gli Stati Uniti sembrano volersi lavarsene le mani, tagliare i costi e concentrarsi sulla politica interna. Difficile quindi attendersi il lancio di un salvagente per Haiti nel prossimo futuro.
Così Port-au-Prince soffre nel silenzio collettivo, di fronte alla crisi umanitaria il mondo appare distratto e i media tacciono poco interessati.
Il fallimento ONU:
Quanto accaduto ad Haiti è considerato da molti il più grande fallimento delle Nazioni Unite. Le numerose missioni lanciate nel corso degli anni non hanno concretamente migliorato la situazione, manifestando altresì una profonda inadeguatezza nel rispondere con efficacia alle richieste di aiuto dei suoi abitanti. Il recente fallimento dell'operazione militare dei caschi blu avvenuta nel 2023 ne è un esempio lampante. Infatti, ci sono voluti più di 8 mesi per organizzarla, superando forti opposizioni sia interne che esterne da parte delle società civili di Haiti e Kenya. Da un lato si contestano i precedenti delle forze kenyane, accusate di pesanti violazioni dei diritti umani nell’area di confine con Somalia ed Etiopia. Dall’altro l’Alta Corte del Kenya ha esaminato due ricorsi sulla legittimità dell’invio del contingente presentati dalle forze di opposizione al governo di William Ruto.
L’avversione degli isolani per i caschi blu affonda le sue radici nella missione MINUSTAH (Mission des Nations Unies pour la Stabilisation en Haïti) patrocinata dall’ONU e terminata ufficialmente nel 2017. Avviata nel 2004 su delibera del Consiglio di Sicurezza, con l'obiettivo di garantire una transizione democratica dopo la deposizione del presidente, si caratterizzò per una serie di scandali che videro coinvolti gli stessi peacekeeper: nel 2010 un’epidemia di colera fu accidentalmente introdotta nel Paese da truppe Nepalesi, causando più di 10.000 morti. Qualche anno dopo emersero legami tra il contingente inviato dallo Sri Lanka ed un giro di prostituzione minorile.
Il caso aiuti:

Tra i protagonisti di questo disastro non si possono dimenticare gli Stati Uniti e in particolare la già citata famiglia Clinton. L’ex presidente e la sua consorte, membri di spicco del partito Democratico, sono affettivamente legati ad Haiti dove hanno trascorso la propria luna di miele. Nel 2010, ai tempi del terremoto, Hillary Clinton era Segretario di Stato mentre Bill era inviato speciale sull’isola per conto delle Nazioni Unite. Degli oltre 13 miliardi di dollari raccolti come “aiuti esteri” solo il 9% è stato destinato al governo Haitiano e lo 0,6% ad associazioni locali. La maggior parte di questa somma è andata a gruppi di aiuto internazionali, appaltatori privati e agenzie dei paesi donatori. Ad esempio, il Pentagono ha fatturato al Dipartimento di Stato centinaia di milioni di dollari per aver inviato truppe statunitensi a distribuire bottiglie di acqua nelle strade della capitale. Nonostante le accuse Repubblicane, l’inchiesta avviata negli anni successivi sull’allocazione dei fondi non ha registrato alcuna irregolarità.
“Hanno semplicemente replicato gli errori dell'intero settore degli aiuti esteri, inseguendo guadagni a breve termine invece di costruire capacità a lungo termine sul campo.”
Così Jake Johnston, analista del Center for Economic and Policy Research, ai microfoni della BBC. Non ci sarebbero quindi intenti dolosi, ma rimane la macchia di una risposta inefficace che ha visto sprecati decine di miliardi di dollari.
“Le istituzioni pubbliche sono state spesso, e di solito inavvertitamente, messe da parte da organizzazioni ben intenzionate che si sono precipitate a fornire servizi di emergenza. Molte hanno allestito costose cliniche temporanee, mentre le istituzioni pubbliche non avevano e non hanno fondi sufficienti per pagare gli stipendi di medici e infermieri.”
Afferma il dott. Paul Farmer, inviato speciale sul campo, nel rapporto dell'OSE (Office of the Special Envoy for Haiti).
Il terrore quotidiano e l’ombra del traffico di droga:
“L’alba è il momento migliore per andare in cerca di cadaveri. Per un paio d’ore l’aria è respirabile e il sole dei Caraibi non ha ancora messo a cuocere il tappeto di spazzatura che fodera la città. I miasmi si sentono lo stesso, quelli non se ne vanno neppure di notte: è il fiato caldo di Port-au-Prince, che non permette di dimenticare neanche per un istante dove si è capitati.”
E’ Fabio Tonacci, inviato sul campo per il quotidiano La Repubblica, a restituirci questa raggelante cartolina dalla capitale. Leggendo queste poche righe tornano alla mente le parole di Jack London nel suo capolavoro “La peste scarlatta” o gli scenari apocalittici di Mad Max: è alla letteratura distopica che dobbiamo fare riferimento per descrivere quanto sta accadendo oggi sull’Isola. Le bande criminali, di cui tanto abbiamo parlato, non sono malvagie orde aliene, ma il naturale risultato della povertà e del bisogno, in uno Stato in cui le uniche risorse a disposizione sono quelle offerte dai traffici illegali. Ecco che ai giovani non viene lasciata scelta: unirsi a loro, arruolarsi, è l’unico modo per sopravvivere. Che si tratti della Camorra a Scampia o del terrorismo islamista nel corno d’Africa il copione resta sempre lo stesso e Haiti non fa eccezione. E’ nel caos che le organizzazioni criminali proliferano e poco importa che si occupino di traffico di droga, armi o esseri umani, quello che conta è che offrono lavoro, protezione e opportunità di carriera.
In questo caso, in particolare, sono i cartelli ad aver approfittato del vuoto di potere, insinuandosi in una società priva di legislazione per renderla il centro del loro commercio.
Spicca su tutte la figura di Guy Philippe, il grande burattinaio di questa tragedia.
Ex poliziotto, recentemente tornato in patria dopo aver scontato una pena per narcotraffico negli USA, è considerato da molti il vero padrone del Paese, riducendo “Barbecue” ad un fantoccio nelle sue mani.
Sarebbe proprio Philippe a finanziare e armare buona parte delle numerose gang attive, il cui atteggiamento ricorda molto quello delle bande di strada afroamericane. Senso di emarginazione, voglia di riscatto, venerazione del lusso, sono tutte componenti che caratterizzano l’anima di questi gruppi, discendenti dallo schiavismo, nati nell’ingiustizia e cresciuti all’ombra del consumismo.








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