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Le tentazioni della potenza

La politica estera della Germania guglielmina e le origini della Grande Guerra




In ogni epoca, la comunità internazionale è stata attraversata da un processo dinamico di confronto in cui potenze tradizionali, che intendono conservare lo status quo, si scontrano con potenze in ascesa e revisioniste, che mirano invece a dare origine a un nuovo sistema internazionale in grado di garantire loro uno status accresciuto. È proprio da questa dialettica che sorgono molte delle tensioni che agitano le relazioni tra gli Stati, dal momento che gli interessi di queste due categorie di potenze risultano difficili da conciliare.

In questo senso, l’atteggiamento delle potenze emergenti, la loro strategia, e la loro capacità di acquisire potere e influenza senza destare eccessiva attenzione sono alcuni degli elementi che determinano o meno il loro successo nel creare un nuovo ordine internazionale. Un esempio emblematico di potenza capace di raggiungere la propria primazia mondiale con pazienza, acume e discrezione fu l’Inghilterra. Il celebre detto secondo cui l’Impero britannico venne costruito “in un eccesso di distrazione” non è infatti poi così infondato.

Caricatura politica dell'Europa del 1914 in cui le varie nazioni sono rappresentate come figure antropomorfe pronte al conflitto - Crediti: the public domain review
Caricatura politica dell'Europa del 1914 in cui le varie nazioni sono rappresentate come figure antropomorfe pronte al conflitto - Crediti: the public domain review
D’altro canto, sarebbe certamente riduttivo affermare che questa lotta tra potenze nuove e potenze vecchie rappresenti l’unico motore delle relazioni internazionali. I rapporti tra Stati si sviluppano secondo modalità più complesse e talvolta contraddittorie. Accade infatti non di rado che potenze emergenti si alleino con potenze decadenti o deluse, nel tentativo di trovare, le une, una nuova centralità, e le altre, di riconquistare l’antica. È ciò a cui assistiamo oggi con la formazione di un presunto “asse revisionista”, di cui farebbero parte la principale potenza emergente, la Cina, e la principale potenza decaduta, la Russia: un esempio interessante di questo tipo di dinamiche.

Uno dei casi storici più emblematici e foriero di destabilizzazione, in cui l’emergere di una grande potenza e la manifestazione delle sue ambizioni si intrecciarono con la volontà di riaffermazione di una potenza declinante, fu il rapporto sempre più stretto che si instaurò tra la Germania guglielmina e l’Impero austro-ungarico. La Germania, a cavallo tra Ottocento e Novecento, rappresentava la principale potenza in ascesa a livello globale, nonché, per molti versi, il Paese più moderno del suo tempo. L’Austria-Ungheria rappresentava al contrario la più arcaica delle grandi potenze. Nel secolo dei nazionalismi, Vienna continuava cocciutamente a difendere una concezione universalistica e sovranazionale del potere sovrano, che traeva la propria legittimità non dalla volontà della nazione, ma dalla volontà di Dio di riconoscere nell’Imperatore asburgico un proprio rappresentante in terra.

L’Impero tedesco era stato plasmato tra il 1871 e il 1890 dall’accorta diplomazia di Bismarck, ed era riuscito, anche e soprattutto a discapito dell’Austria, a rafforzarsi e a diventare la principale potenza continentale senza tuttavia allarmare eccessivamente l’egemone globale, il Regno Unito, e garantendosi al contempo un sistema di alleanze capace di evitare l’accerchiamento del Secondo Reich. Con l’ascesa al trono imperiale tedesco di Guglielmo II nel 1888 e la liquidazione di Bismarck, la Germania entrò tuttavia in una nuova fase della propria storia diplomatica. Il sistema di equilibrio costruito dal Cancelliere di ferro, basato su prudenza, isolamento della Francia e costante dialogo con la Russia, venne progressivamente smantellato dalla nuova classe dirigente. Il Kaiser, giovane, impulsivo e animato da un profondo desiderio di protagonismo, era convinto che l’espansione della potenza tedesca dovesse necessariamente riflettere il suo straordinario sviluppo economico e industriale.

Ritratto ufficiale che ritrae i due Kaiser, quello Tedesco Guglielmo II a sinistra e quello austro-ungarico Francesco Giuseppe a destra.- Crediti: UW-Madison Libraries
Ritratto ufficiale che ritrae i due Kaiser, quello Tedesco Guglielmo II a sinistra e quello austro-ungarico Francesco Giuseppe a destra.- Crediti: UW-Madison Libraries
In meno di vent’anni, la Germania era divenuta una potenza mondiale: la sua forza economica superava ormai quella francese e si avvicinava a quella inglese; la marina cresceva in modo vertiginoso; l’esercito, efficiente e modernissimo, era divenuto simbolo dell’identità nazionale. Questa ascesa rapida e travolgente generò un senso di superiorità e fiducia eccessiva nei propri mezzi. La Germania, troppo forte per sentirsi minacciata ma non abbastanza matura per gestire la propria potenza con misura, iniziò a muoversi sulla scena internazionale con una combinazione di ambizione e arroganza.

La Weltpolitik, con cui Guglielmo II e i suoi consiglieri volevano sostituire la prudente Realpolitik bismarckiana, si proponeva di proiettare la Germania nel mondo come grande potenza coloniale e marittima, alla pari con l’Impero britannico. Ciò significava non solo assicurarsi “un posto al sole” nelle conquiste oltremare, ma anche acquisire il prestigio politico e militare necessario per essere riconosciuta come egemone globale.

In concreto, questa politica si tradusse in una serie di iniziative che destabilizzarono l’ordine europeo. La più significativa fu il gigantesco programma di costruzione navale promosso dall’ammiraglio Alfred von Tirpitz, che diede vita a una vera e propria corsa agli armamenti marittimi con la Gran Bretagna. Tra il 1898 e il 1912, due Flottennovellen (leggi navali) stanziarono fondi per la creazione di una flotta d’alto mare (Hochseeflotte) capace di competere con quella britannica. Questa minaccia diretta al dominio navale del Regno Unito — cardine dell’equilibrio imperiale britannico — spinse Londra ad abbandonare il tradizionale isolamento e ad avvicinarsi prima al Giappone (1902), poi alla Francia (1904) e alla Russia (1907), dando origine all’Entente Cordiale e, infine, alla Triplice Intesa.

Parallelamente, la Germania cercò di affermarsi come potenza coloniale in Africa e in Asia, entrando in rotta di collisione con gli interessi britannici e francesi. Le due crisi marocchine (1905 e 1911) ne furono l’esempio più eclatante. Berlino, intervenendo per difendere la “sovranità” del Marocco contro le mire francesi, intendeva dimostrare la propria influenza globale e la volontà di non essere esclusa dalle grandi spartizioni imperiali. Ma queste mosse, lungi dal rafforzare la sua posizione, finirono per isolare ulteriormente la Germania, che appariva agli occhi delle altre potenze come un elemento destabilizzatore e aggressivo.

Navi da guerra della prima e seconda squadra navale della flotta d'alto mare (Hochseeflotte) alla vigilia della Prima Guerra Mondiale - Crediti: dominio pubblico
Navi da guerra della prima e seconda squadra navale della flotta d'alto mare (Hochseeflotte) alla vigilia della Prima Guerra Mondiale - Crediti: dominio pubblico
La nuova Germania decise di basare la propria sicurezza su due convinzioni principali, oltre alla propria forza: la necessità di mantenere un legame privilegiato con l’Austria-Ungheria e la certezza della fedeltà italiana alla Triplice Alleanza. La prima convinzione nasceva dalla consapevolezza che l’Impero asburgico rappresentasse l’unico alleato realmente affidabile nel cuore dell’Europa, ma che la sua stabilità dipendesse in larga misura proprio dal sostegno tedesco. La tutela dell’Austria divenne così un imperativo strategico, quasi una missione storica. Proprio per compiacere Vienna, i cui interessi nei Balcani erano sempre più in conflitto con quelli di San Pietroburgo, Berlino decise di rinunciare al Trattato di controassicurazione con la Russia, rompendo così l’equilibrio bismarckiano e contribuendo indirettamente alla nascita dell’alleanza franco-russa.

Quanto all’Italia, la Germania la considerava un alleato utile nel Mediterraneo in funzione antifrancese. Un riavvicinamento fra Roma e Parigi sarebbe stato pericoloso, specialmente per le ambizioni tedesche verso il Medio Oriente. Proprio negli anni a cavallo tra i due secoli, infatti, a seguito lungo viaggio del Kaiser in Oriente iniziò a svilupparsi il progetto di una ferrovia che, attraversando i Balcani e l’Impero ottomano, avrebbe dovuto collegare Berlino a Baghdad, garantendo al Secondo Reich un accesso diretto alle risorse petrolifere e ai mercati orientali.

Alla convinzione della fedeltà italiana all’alleanza contribuì anche lo spirito profondamente filoitaliano del cancelliere von Bülow, che era stato ambasciatore a Roma e aveva sposato una nobildonna bolognese, la contessa Maria Beccadelli.

La Germania si riteneva quindi sufficientemente rassicurata dalla Triplice, vista in una dimensione quasi patriarcale, con Berlino al vertice, a condizione che l’Austria restasse coesa e forte e che l’Italia si dimostrasse un alleato fedele. Fu proprio questa (miope?) fiducia, presto trasformata in convincimento, a spingere Berlino a rifiutare il progetto di un’intesa con l’Inghilterra, già proposto negli anni Novanta e poi ripreso con ancor maggiore insistenza da Joseph Chamberlain a partire dal 1901. La Germania vedeva nella proposta inglese due problemi: da un lato, un’inaccettabile pretesa di predominanza inglese; dall’altro, un segno di debolezza di Londra, che, minacciata dalla crescente potenza tedesca, cercava di uscire dal proprio “splendido isolamento”. La controproposta tedesca, che nascondeva una nemmeno troppo velata provocazione, fu l’invito alla Gran Bretagna di unirsi alla Triplice; ma questo non era chiaramente possibile, poiché avrebbe significato l’accettazione di un ruolo almeno di parità della Germania e, soprattutto, l’assunzione da parte di Londra del fardello di difendere l’impalcatura danubiano-balcanica retta da un Impero asburgico sempre più in via di frammentazione.

Durante gli anni che precedettero lo scoppio della Grande Guerra, le tensioni già latenti nel continente europeo andarono crescendo e, tra il 1904 e il 1907, si costituirono in maniera definitiva due blocchi di alleanze contrapposte: la Triplice da un lato e l’asse franco-russo, presto completato dall’intesa con l’Impero britannico dall’altro. In questo contesto, la politica estera tedesca maturò l’illusione di poter controllare gli eventi senza la necessità di un’accurata opera diplomatica, ma attraverso la mera potenza del Reich, percepita come garanzia di successo in ogni circostanza.

L’estrema rigidità delle alleanze, la crescente retorica bellicista e la leggerezza nell’affrontare le stringenti questioni della sicurezza europea avevano determinato una situazione tesa a tal punto che ogni nuova crisi rendeva lo scenario di una guerra continentale sempre più probabile. La crisi di luglio del 1914, provocata dall’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, rappresentò esattamente la scintilla che innescò l’incendio in un ambiente ormai totalmente saturo.

Determinata a risolvere una volta per tutte la questione balcanica, l’Austria, sperava di intervenire rapidamente in Serbia, occuparla, instaurare un regime più accondiscendente e di porre il mondo di fronte al fatto compiuto, come aveva fatto con la Bosnia nel 1908. Tuttavia, dopo esitazioni iniziali, arrivarono le pressioni russe che, da un lato, preoccuparono e rallentarono ulteriormente le operazioni, e dall’altro esasperarono il clima politico austro-ungarico, da tempo segnato da una smania di agire, forse dovuta alla consapevolezza,conscia o inconscia, di essere un gigante dai piedi d’argilla. La Germania, di fronte alla possibilità di un conflitto austro-russo, capì di non poter abbandonare il suo alleato, poiché l’Impero austro-ungarico ne sarebbe uscito imploso, con conseguenze disastrose per la stessa sicurezza tedesca. Queste considerazioni spiegano la politica del cosiddetto “assegno in bianco” a favore dell’Austria-Ungheria nel luglio del ’14, che consentì a Vienna di sentirsi sicura nel mostrare i muscoli in Serbia.

D’altro canto, la Russia, come dimostrato dalla corrispondenza tra il Kaiser e lo Zar, non desiderava certamente una guerra con la Germania, ma si sentiva obbligata a intervenire in Serbia sia per tutelare i propri interessi nei Balcani, sia per riaffermare la propria forza a livello internazionale dopo la disfatta contro il Giappone del 1905.

Telegramma di Nicola II al cugino Guglielmo II poco prima dello scoppio della guerra in cui in un ultimo disperato tentativo l’imperatore russo si augura che “la loro lunga amicizia e l’aiuto di Dio possano scongiurare lo spargimento di sangue” - Crediti: dominio pubblico
Telegramma di Nicola II al cugino Guglielmo II poco prima dello scoppio della guerra in cui in un ultimo disperato tentativo l’imperatore russo si augura che “la loro lunga amicizia e l’aiuto di Dio possano scongiurare lo spargimento di sangue” - Crediti: dominio pubblico
In questo senso, lo scoppio della Prima guerra mondiale, oltre alle ambizioni egemoniche tedesche, che crearono le condizioni per la conflagrazione del conflitto, fu in parte dovuto alla necessità dei due imperi più arcaici e fragili d’Europa di dimostrare che la loro potenza rimaneva intatta. Così facendo, si gettarono in una lotta suicida che travolse l’Europa e il mondo.

Il 29 luglio, a seguito dell’inizio delle operazioni belliche austriache in Serbia del 28, la Russia decise di mobilitarsi, parzialmente per minacciare l'Austria e fare pressione su Berlino. In Germania, in un clima incandescente, il partito della guerra reagì convincendo Guglielmo II a dichiarare lo "stato di pericolo di guerra". Il governo russo in preda ad uno stato di forte fibrillazione, consapevole della lentezza della mobilitazione nello sterminato impero, ruppe le esitazioni dello Zar e decise la mobilitazione generale. A Berlino questi fattori, uniti a una visione bellicista tipicamente prussiana e a una filosofia politica impregnata di darwinismo sociale, portarono alla convinzione che la guerra fosse inevitabile e che quello fosse il momento giusto per agire. Il capo di stato maggiore, von Moltke, ebbe un ruolo centrale nel dirigere Germania e Austria verso la guerra. In un telegramma del 30 luglio al suo omologo austriaco Conrad, scrisse: "Resistere contro la mobilitazione russa. L'Austria-Ungheria deve essere preservata. Mobilitare subito contro la Russia. La Germania mobiliterà. Costringere con compensi l'Italia al suo dovere di alleata". Le lentezze russe e le rigidità del piano Schlieffen — che prevedeva un attacco immediato alla Francia — resero il conflitto una questione di tempi tecnici più che di scelte politiche.

Dimostrazioni di massa a Vienna subito dopo l’annuncio della dichiarazione di guerra alla Serbia. Lo stesso Sigmund Freud espresse il suo entusiasmo bellico in una lettera all’amico Karl Abraham : “Per la prima volta da trent’anni mi sento austriaco [...] tutta la mia libido si riversa sugli austro-ungarici.” - Crediti: Mediathek.
Dimostrazioni di massa a Vienna subito dopo l’annuncio della dichiarazione di guerra alla Serbia. Lo stesso Sigmund Freud espresse il suo entusiasmo bellico in una lettera all’amico Karl Abraham : “Per la prima volta da trent’anni mi sento austriaco [...] tutta la mia libido si riversa sugli austro-ungarici.” - Crediti: Mediathek.
Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum di 12 ore a San Pietroburgo, scaduto il quale i due paesi si trovarono in stato di guerra. A quel punto, la grande macchina delle alleanze era ormai inarrestabile, trascinando con sé governi e popoli. La convinzione tedesca, concretizzata nel piano Schlieffen, era che in caso di guerra con la Russia sarebbe stato necessario anzitutto muovere guerra contro il suo alleato occidentale, la Francia, per rompere l’accerchiamento e sfruttare la lentezza della mobilitazione russa, la quale richiedeva un periodo di tempo giudicato sufficiente per mettere in ginocchio la Francia e quindi dirigersi a Oriente. Questa mossa conteneva al suo interno un’ulteriore scommessa: il non intervento britannico, che era stato in qualche modo garantito alla Germania a condizione della tutela della neutralità belga. Ma la macchina bellica tedesca, seguendo i piani preparati da decenni dallo Stato maggiore, si dirigeva ormai verso il Lussemburgo e lanciava un ultimatum al Belgio, determinando anche l’intervento britannico. La Grande Guerra era infine scoppiata.

La crisi di luglio del 1914 fu dunque in questo senso il prodotto di due tensioni complementari. Da un lato, l’hybris tedesca — il delirio di potenza di un impero giovane, cresciuto troppo in fretta, convinto che la propria forza bastasse a garantirgli un ruolo dominante nel mondo; dall’altro, la smania di vitalità degli imperi più fragili e arretrati, l’austriaco e il russo, entrambi spinti dal bisogno di riaffermare la propria esistenza di fronte al declino.

Ma a rendere inevitabile il disastro fu anche la crisi della diplomazia europea, incapace di tradurre le rivalità in compromessi e di frenare la spirale di errori. Il sistema bismarckiano di equilibrio e mediazione era ormai un ricordo lontano: le cancellerie agivano con schemi rigidi, dominate da logiche militari e da una crescente sfiducia reciproca.

Nel 1914 non furono più i diplomatici, ma i generali e i timori nazionali a dettare i tempi della politica. Ogni potenza, anziché negoziare, preferì scommettere sulla debolezza dell’avversario: l’Austria sulla passività russa, la Germania sulla rapidità della propria offensiva, la Russia sull’appoggio francese, la Francia sull’intervento britannico. Una catena di calcoli errati, di mosse azzardate e di illusioni condivise che trasformò una crisi regionale in una guerra mondiale e che segnò il suicidio di un continente.

Se la crisi del 1914 fu in gran parte il prodotto di una dialettica tra potenze emergenti e potenze in declino, l’analisi storica suggerisce oggi un monito che appare sorprendentemente attuale. Anche nel sistema internazionale contemporaneo si assiste infatti al riaffiorare di tensioni simili: da un lato, un’egemonia occidentale impegnata a preservare l’ordine costruito nel secondo dopoguerra; dall’altro, un fronte di potenze revisioniste che, come la Germania guglielmina di un secolo fa, contestano la legittimità di tale ordine e ambiscono a ridisegnarlo a propria immagine. L’asse tra la Russia e la Cina ne rappresenta la manifestazione più evidente: l’una, potenza ridotta e frustrata che, come l’Austria-Ungheria, cerca nella minaccia militare e nell’azzardo geopolitico un modo per riaffermare il proprio status; l’altra, potenza in ascesa che, come la Germania a cavallo tra i due secoli, subisce la tentazione di trasformare la propria crescita economica e tecnologica in una crescente proiezione strategica. Anche oggi, dunque, ritorna quella combinazione di risentimento e ambizione che portò l’Europa alla catastrofe del 1914. Se allora la crisi della diplomazia e la fiducia cieca nella forza impedirono di contenere la corsa agli errori, oggi la sfida consiste nel saper preservare il dialogo e i meccanismi di equilibrio prima che l’illusione di onnipotenza o la paura del declino trasformino ancora una volta la competizione in uno scontro dagli esiti catastrofici.


Bibliografia

Albertini, L. (1942–1943). Le origini della guerra del 1914. Fratelli Bocca.


Albrecht-Carrié, R. (1967). Storia diplomatica dell’Europa (1815–1939). Feltrinelli.


Canfora, L. (2014). 1914. Sellerio.


Clark, C. (2013). The Sleepwalkers: How Europe Went to War in 1914. Penguin Books.


Di Nolfo, E. (2002). Dagli imperi militari agli imperi tecnologici: La politica internazionale dal XIX al XXI secolo. Laterza.


Kissinger, H. (1994). Diplomacy. Simon & Schuster.



 
 
 

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